Allenamento Personalizzato: Come Costruire un Programma Mirato

4 Maggio 2024 / Palestra
Allenamento Personalizzato: Come Costruire un Programma Mirato

Introduzione

La pianificazione di un allenamento personalizzato in resistance training con i sovraccarichi deve rispettare i princìpi fisiologici noti, in modo da poter ottenere il massimo risultato in termini di crescita ipertrofica o di massa muscolare).

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In questo articolo cercheremo di chiarire quali siano i parametri utili a stabilire un piano di allenamento quanto più soggettivo possibile, ricordandoci che la scelta degli esercizi dovrà rispettare comunque le condizioni di flessibilità ed elasticità muscolare, e di mobilità articolare.

Composizione Muscolare

Tipi di fibre muscolari

Le fibre possono anche essere classificate in base alle loro capacità di contrazione: lenta ossidativa rossa (tipo I), intermedia (chiara) anaerobica glicolitica (tipo IIa) e rapida anaerobica fosfagena bianca (tipo IIb).

IIa e IIb vengono spesso unificate nella dicitura IIX, perchè non esiste una netta separazione tra le bianche e le intermedie, in quanto le caratteristiche non sono completamente esclusive.

Nota: la classificazione in base al colore si sovrappone in gran parte, ma non completamente, alle suddivisioni per MHC (myosin heavy chain) e attività mionsinica ATPasica.

Ora che abbiamo capito a quali fibre si attribuiscono i vari sistemi energetici di cui il nostro corpo si serve per produrre energia meccanica, quindi movimento, rimane da comprendere “quali” e “quante” fibre tipo I, IIa e IIb contengono i vari muscoli.

I muscoli sono tutti uguali?

La composizione in fibre è tendenzialmente diversa tra i vari muscoli, incidendo sulla scelta dei vari parametri allenanti (intensità, volume, densità, tempi di tensione, recupero ecc.).

Le differenze sono anche soggettive, ma non sembrano dipendere dal sesso o dall’età, anche se i bambini sembrano possedere scarse capacità anaerobiche. Nei sedentari, la media della percentuale di fibre indica una quasi parità tra I e IIx.

La percentuale cambia invece considerevolmente in base al background d’allenamento, poiché lo stimolo motorio può alterare l’attitudine metabolica periferica.

Come avvenga questa metamorfosi è ancora oggetto di studi. I più ritengono che nel macroinsieme delle fibre IIx, le cosiddette fibre intermedie fosfatagene IIa mostrino la capacità di “specializzarsi” in direzione ossidativa.

Questo sarebbe vero soprattutto per una moltiplicazione dei mitocondri, anche se ciò non spiegherebbe fino in fondo perché, all’analisi bioptica, i fondisti evidenzino comunque una percentuale di fibre lente tipo I o rosse e ossidative sproporzionatamente elevata.

Probabilmente questo è un primo adattamento, ovvero una risposta di medio termine, dei tessuti con un percentuale di fibre IIx considerevole.

Crescita di Massa Muscolare

Come incide la percentuale di fibre sulla crescita di massa muscolare?

La crescita muscolare, in termini ipertrofici ovviamente, è profondamente influenzata dalla tipologia di fibre che caratterizza il tessuto in oggetto.

Le tipo IIx (bianche e intermedie) hanno una spiccata tendenza alla crescita, perché sono quelle reclutate negli stimoli di forza elevati.

Poiché tutti i tipi di forza sono direttamente correlati alla sezione muscolare – ma non per questo proporzionali – è logico che l’adattamento primario di supercompensazione ad un allenamento di questo tipo sia la crescita del diametro trasverso.

D’altro canto, le fibre rosse hanno una ridotta capacità ipertrofica, ma in compenso possono sostenere i carichi di lavoro per tempi decisamente più lunghi e recuperare velocemente.

Al fine di sfruttare al meglio le capacità ipertrofiche generali, si necessiterà di allenamenti con parametri allenanti che volgono da una parte o dall’altra, a seconda della “ipotetica” composizione in fibre.

Tale variazione è sia intraindividuale, ovvero cambia da muscolo a muscolo, sia inter individuale, ovvero cambia da persona a persona. Ciò significa che l’allenamento dovrebbe differire in termini di parametri allenanti sia da un soggetto all’altro che da un distretto all’altro.

La ripartizione delle fibre di ogni muscolo del corpo è di natura genetica ma non sempre tocca tutti i muscoli allo stesso modo; un soggetto potrà avere dei muscoli gran pettorali con più fibre bianche o vasti mediali con più di fibre rosse rispetto alla media. Da qui, un ulteriore differente potenziale di crescita.

Non bisogna però commettere l’errore di credere che i princìpi fisiologici cambino a seconda del caso; è invece l’opposto. Nel senso che a mutare è la condizione basale, richiedendo di conseguenza l’applicazione di stimoli con maggior interesse di una via metabolica piuttosto di un’altra.

In quest’ottica, un “hardgainer” – spesso somigliante al cosiddetto modello ectomorfo – dovrebbe porsi una domanda:

vale più la pena tentare di bersagliare le fibre rosse, perché abbondanti in un determinato soggetto, o quelle chiare, perché hanno comunque un maggior potenziale?

La risposta potrebbe dipendere sostanzialmente da quante fibre rosse o chiare “dovrebbe” contenere un determinato muscolo. Per fare un esempio, i muscoli quadricipiti contengono mediamente il 52% di fibre di tipo I, mentre il soleo arriva all’80% circa; per entrambi, la rimanenza è di fibre IIx (sia IIa che IIb). Questo ci suggerisce che le cosce anteriori avranno certamente maggiori probabilità di rispondere alle alte intensità di carico rispetto al muscolo profondo del polpaccio.

Ciò detto, le fibre non sono comunque “tutto”. Nell’espressione di forza entrano in gioco altre variabili e quindi, a conti fatti, l’unica certezza è data dall’esito sperimentale.

Ad esempio, le difficoltà nell’allenamento della schiena potrebbero dipendere da fattori tecnici (esecuzione errata), anatomo-funzionali (mobilità scapolo-omerale) o biomeccanici (attitudine ad esaurire precocemente i flessori del braccio), più che di composizione muscolare.

Per questo si consiglia sempre di variare lo stimolo, con approccio scientifico e non casuale, in modo da testare la risposta ipertrofica reale quale dato utile alla costruzione dei protocolli futuri.

Test per le Fibre Muscolari

Come si esegue il test per le fibre muscolari?

Per cercare di capire “di che pasta siamo fatti” è possibile eseguire un test da carico di lavoro, che può fornirci una traccia utile sulla quale costruire la nostra routine personalizzata.

Questo test – da eseguire su soggetti non neofiti – consiste nel realizzare, mediante un esercizio monoarticolare e all’80% 1RM, il maggior numero possibile di ripetizioni fino al cedimento concentrico.

Il calcolo di 1RM si può ottenere con metodi diretti (più accurato) o indiretti, ad esempio seguendo l’equazione di Bryzicki: 1RM = Carico sollevato / 1,0278-(0,0278* numero di ripetizioni max)

Notatale equazione rispecchia più la realtà quanto più il numero delle ripetizioni massime sarà basso, quindi diciamo intorno alle 4-6 ripetizioni, e che il carico sollevato deve comprendere i bilancieri o altri eventuali supporti come i fermi ai lati.

Per il pre-test dell’1RM le indicazioni generali sono poche: eseguire un buon riscaldamento, un adeguato avvicinamento al carico e ripetere il test almeno 2 volte prendendo per buono il valore più alto e recuperare almeno 2 minuti e non più di 4-5.

Dall’1RM (eventualmente ottenuto con Bryzicki) ricaveremo l’80% da usare nel test, al termine del quale si annoteranno le massime ripetizioni effettuate all’incapacità positiva. Sarà indispensabile l’assistenza di uno spotter, che d’altro canto non faciliterà in alcun modo le rep – se non all’incapacità totale, e in tal caso la rep non conta.

Risultati del test e fibre muscolari

  • Con 5-8 rep e stanchezza entro 10-15″, possiamo ipotizzare che in quel distretto muscolare si abbia una buona densità di fibre IIx (veloci).
  • Con oltre 20 rep e stanchezza che supera i 50-60″, possiamo ipotizzare che in quel distretto muscolare si abbia una buona densità di fibre I (lente).
  • Con 10-15 rep e stanchezza intorno ai 20-30″, possiamo ipotizzare che in quel distretto muscolare si abbia un discreto equilibrio tra i due tipi di fibre.

Da questo test si può estrapolare il carico di lavoro ottimale per ogni muscolo, in termini di percentuale sulla 1RM, con adeguati TUT, densità e volume di allenamento.

È quindi logico che se i risultati indicano un’elevata componente di fibre rosse, la tabella di allenamento richiederà “ipoteticamente” percentuali d’intensità inferiori rispetto alle bianche, una maggior densità (quindi minori recuperi) e maggior volume di allenamento.

 

Come Gestire i Parametri Allenanti

Il carico allenante è dato da volume + intensità + densità. Aumentando uno di questi, si deve diminuire uno degli altri due o entrambi.

I parametri allenanti correlati ad essi sono: numero di allenamenti settimanali, ripetizioni, serie, TUT, grado di affaticamento (nel buffer) e non solo.

L’importanza dell’intensità

Saremo concisi. L’intensità è un altro parametro fondamentale alla crescita ipertrofica, in quanto permette il massimo reclutamento di fibre veloci, la produzione di messaggeri intracellulari che inducono la crescita e – nel contesto di un affaticamento globale adeguato – anche la liberazione di testosterone.

Nell’allenamento per l’ipertrofia l’intensità dev’essere prevalente o comunque considerevole, anche nei soggetti con alte percentuali di fibre rosse.

Si definisce alta intensità quella compresa tra l’85 e il 100% della 1RM.

Quanto volume e quale densità allenante scegliere?

La scelta del grado di volume e densità non dipende solo dalla composizione in fibre muscolari, ma anche dall’attitudine soggettiva alla fatica – chi è portato a raggiungere il cedimento muscolare e chi invece lavora meglio a buffer – e dal carico di lavoro complessivo.

Il volume è essenziale all’insorgenza di stimoli biochimici come la produzione di acido lattico, la deplezione dei fosfageni ecc.

Nel lavoro di forza pura (fibre veloci), il volume dei singoli allenamenti è solitamente contenuto, perché l’esaurimento dei fosfageni impone di ridurre l’intensità. Viceversa, caratterizza gli workout di resistenza alla forza, che sfruttano il connubio tra fibre intermedie (produzione di acido lattico) e fibre ossidative (fibre lente).

La densità invece, che corrisponde alla vicinanza degli stimoli e quindi alla brevità dei recuperi, permette di “concentrare” le sessioni – facendole durare meno – e di lavorare in “pre-affaticamento”. Nel pratico, è inversamente proporzionale ai recuperi tra le serie.

Nel lavoro di forza pura, la densità è bassissima. Nel lavoro di resistenza alla forza, la densità è “solitamente” alta. La densità è quindi un parametro più importante nell’allenamento delle fibre lente rispetto a quelle veloci.

Ma come possiamo capire quanto volume e che livello di densità adottare? È presto detto.

Anzitutto dev’essere chiaro se lavorare a cedimento o a buffer. Suggeriamo di consultare l’articolo dedicato.

Per approfondire: Allenarsi a Buffer: Perché ed EfficaciaBisogna poi scegliere l’intensità, in base al risultato del test sulle fibre e all’obbiettivo dell’allenamento – stimolare quelle rosse o quelle chiare.

Il volume di lavoro per un soggetto che lavora a cedimento corrisponde al numero di set che possono essere completate rispettando – con poco margine di scarto, diciamo +/-2 – il numero di rep della prima, mantenendo i giusti tempi sotto tensione (vedi sotto).

Per la densità il discorso è analogo. Dando per buono un tetto di recupero massimo pari a 3’00” e uno minimo di 45″, e consapevoli del fatto che le fibre rosse impiegano meno tempo per recuperare rispetto alle chiare, si dovranno stabilire delle pause necessarie a garantire il completamento del volume allenante.

Perché è fondamentale considerare i TUT oltre alle rep?

TUT (tempo sotto tensione), rep (ripetizione) e set (serie) sono parametri allenanti; aumentandoli o diminuendoli, si interviene prevalentemente sul volume.

Per rep si intende il compimento del ciclo intero di un movimento. Per set, l’insieme consecutiva di più rep, eventualmente separata da altre set o esercizi dal recupero passivo. Il TUT invece, è il tempo che si impiega nell’esecuzione di una set o di una rep o dell’intero allenamento; corrisponde al “lavoro effettivo”.

In pratica:

  • se una rep avesse un TUT di 3” e la set prevedesse 10 colpi, il TUT della set sarebbe di 30”; se si praticassero 3 set per 3 esercizi, il TUT complessivo corrisponderebbe a 30*3*3=180” (3 minuti);
  • ma è anche vero che se il TUT della rep crescesse a 6”, il complessivo ammonterebbe a 60*3*3=360” (6 minuti).

Aumentare i TUT significa implementare il costo energetico e – nel contesto del resistance training – la concentrazione di acido lattico. Ma è sempre corretto? Qual è il limite?

Rapportare intensità e tempi sotto tensione

Nell’allenamento del bodybuilding è importante mantenere TUT considerevoli e prevalentemente distribuiti sulla fase eccentrica; questo perché l’aumento della sezione muscolare viene stimolata molto dal lavoro in negativo o in isometria.

Ma allora, perché contare le rep se è il TUT a valutare il “lavoro effettivo”?

Perché le ripetizioni sono il frutto del rapporto tra TUT (tempo / volume) e %1RM (intensità).

Tuttavia, con TUT eccessivamente alti è impossibile mantenere %1RM di un certo livello! Pertanto, mantenendo le rep costanti, aumentando i TUT è inevitabile dover ridurre l’intensità.

Non è un caso che uno tra gli errori più comuni, aumentando i sovraccarichi ma in un protocollo a medio o alto volume, sia quello di abbattere drasticamente i TUT per mantenere costanti le rep.

Rimane quindi da capire perché o quanto aumentare uno e diminuire l’altro o viceversa.

Si possono considerare rep a TUT “idonei” (fase concentrica + fase eccentrica) quelli compresi tra 4-6″ (inserendo una pausa isometrica, anche 7-8”). Questo perché consentono di gestire comunque alte intensità e una buona qualità di lavoro, anche data dalla pulizia ed ampiezza del movimento (ROM) e dal rapporto tra fase concentrica ed eccentrica.

Ovviamente, un esercizio monoarticolare come il curl con manubrio per il bicipite e uno squat con bilanciere non possono avere un TUT identico, perché il numero di articolazioni coinvolte e i ROM sono estremamente differenti.

Sono di conseguenza considerate set a TUT elevati oltre ai 60-80″ (circa 12-15 rep), medi intorno ai 45” (circa 8-9 rep) e bassi con meno di 20-30” (5-6 rep).

Nella Pratica

Come costruire un allenamento personalizzato una volta eseguiti i test?

L’allenamento dev’essere adeguato alle necessità personali e alle attitudini

Fare un esempio di routine d’allenamento sarebbe non solo inutile, ma anche fuorviante, in quanto prescinderebbe dal concetto essenziale di ciclizzazione dello stimolo.

Come potrebbe concepire un allenamento senza tener conto della situazione corrente e della fase annuale? Impossibile, ma potremmo comunque dare alcuni consigli utili.

Diamo per scontato di lavorare su un organismo già condizionato e con un minimo di esperienza; diciamo 3 anni di allenamento.

La prima domanda da porsi è: “Quanto tempo posso dedicare all’allenamento?”. Esatto, è impensabile stendere un allenamento che implichi 5 routine se, a conti fatti, la persona non può dedicare più di 3 giorni alla settimana per questo obbiettivo.

Un’ovvietà? Assolutamente no, poiché la ripartizione delle sessioni è anch’essa un parametro allenante. Questo vale soprattutto nei lavori ad altissima intensità, nella forza pura, che affaticano significativamente anche il SNC; ma anche nei lavori ad alto volume – rari nel bodybuilding – che richiederebbero di ripartire le due sessioni mancanti nelle altre 3, facendole durare troppo.

Detto questo, diventa necessario stabilire se lavorare a cedimento (di qualunque genere) o a buffer. Non per stare “dalla parte dei bottoni”, ma oggi come oggi si consiglia di trovare soluzioni promiscue o comunque di alternare i due.

Lavorare sempre a cedimento è infatti controproducente, in quanto stressa troppo sia il cervello che le strutture meccaniche; inoltre, implica spesso fasi di plateau e addirittura di peggioramento. Ha anche maggiori rischi di infortunio.

Viceversa, a buffer mancano lo stimolo d’esaurimento e talvolta quello di massima tensione muscolari; per alcuni, questi due sono indispensabili alla crescita.

Il buffer prevede semplicemente di mantenere una “riserva di rep”; quindi, se con un determinato sovraccarico potrei eseguire 8 rep, a buffer 2 ne eseguirò 6. Chiarito questo, il calcolo degli altri parametri allenanti è il medesimo.

Come gestire gli esercizi multiarticolari?

Ipotizzando di aver ottenuto valori netti per ogni muscolo; finché scegliamo di stimolarli con esercizi monoarticolari, nessun problema. Possiamo creare tabelle con differenze abissali tra un muscolo e l’altro.

Ma come gestire gli esercizi multiarticolari?

Prendiamo il solito squat. Coinvolge ¾ dell’organismo, con maggior enfasi su quadricipiti femorali e grande gluteo, seguiti dal gruppo degli ischiocrurali. Tuttavia, i test ci hanno fornito dati diversi tra i vari; ad esempio: alta percentuale di fibre chiare per il grande gluteo e per i quadricipiti, e viceversa alta percentuale di fibre rosse per il bicipite femorale.

In questo caso, come gestire lo squat? Bisognerebbe dare la priorità ai muscoli maggiormente reclutati, ovvero il quadricipite nei primi 90° del movimento e grande gluteo nei secondi 90°. Il bicipite femorale ha un ruolo importante di stabilizzazione, assieme agli adduttori ed abduttori.

Una buona soluzione potrebbe essere eseguire solo un mezzo squat con alte rep (15-20), media intensità (65-70%), TUT per set di 60-80″ e recuperi bassi (45-75″), e dedicare ai glutei un esercizio (ad esempio lo stacco da terra a gambe tese) a basse rep (6-7), alta intensità (almeno 85%), TUT per set di 20-30″ e recuperi alti (150-180″).

Un’altra alternativa potrebbe essere eseguire lo squat completo ma a parametri allenanti variabili tra le set; dopo un adeguato avvicinamento al carico, partire da alte intensità, poche rep e ampi recuperi, terminando con medie intensità, più rep e bassi recuperi.

Questo sistema tuttavia, si applica molto in caso di ricerca di cedimento muscolare, che richiede un solo allenamento per gruppo muscolare a settimana.

In caso di allenamento a split, si può dividere lo stimolo ad alta intensità nel primo allenamento e quello a media intensità nel secondo. In tal caso, ricordiamoci di non esaurire completamente il distretto, o alla successiva sessione di forza non saremo in grado di rendere il dovuto.

Conclusioni

In conclusione, l’allenamento personalizzato deve necessariamente tenere conto delle richieste soggettive, del grado di allenamento, della possibilità o meno di avvalersi di uno spotter e, solo infine, delle caratteristiche fisiologiche soggettive.

Questo perché i primi sono presupposti essenziali, mentre la composizione in fibre è un dettaglio tecnico, peraltro non troppo facile da sfruttare nella strutturazione di un protocollo.

Per chi non avesse questa possibilità, rimane valido il consiglio di provare tabelle diverse, con parametri allenanti anche sensibilmente mutevoli.

Solo nell’applicativo avremo la reale possibilità di constatare l’impatto di un sistema; tutto il resto è pura teoria.

Fonte: MyPersonaTrainer